di Laura Catastini del Consiglio Direttivo del Centro

Nel 2000 ho frequentato, il corso di storia e didattica della matematica del prof. Ghione, che si occupava dell’Ottica di Euclide e vi ho svolto alcune ore di docenza a contratto sul tema: processi cognitivi e didattica della matematica.

Alla fine del corso una studentessa ci ha chiesto una tesi su questi argomenti, richiesta che mi ha portato a maturare e a mettere in pratica l’idea di un progetto didattico fondato su una pratica “laboratoriale” – all’epoca non era ancora entrato nell’uso questo termine – e sensoriale-immaginativa, in linea con le idee già esposte in un mio libro precedente, idea che Ghione ha totalmente appoggiato. All’epoca insegnavo in un istituto d’arte, ambiente ottimale per ospitare la sperimentazione. Il progetto, iniziato in sordina in una terza classe, in orario curricolare, ha avuto poi tanto successo da essere trasformato in una sperimentazione triennale ufficiale, svolta in una classe pilota, dalla terza alla quinta, sempre in orario curricolare. La sperimentazione ha dato vita, alla fine, al nostro volume Le geometrie della visione (2004).

Questa esperienza, passata attraverso il Collegio dei docenti e testata in un esame di maturità finale, ha chiesto ovviamente dei passi ufficiali che ne cogliessero le caratteristiche di novità rispetto alla normale pratica didattica e le documentassero, al fine di connotare l’effettivo svolgimento di quanto proposto.
Ecco le caratteristiche principali documentate:

1 – Erano previste, per ogni anno di corso, alcune ore di convergenza su argomenti significativi, di discipline diverse. Per esempio, in terza collaborarono Filosofia, Italiano, Storia dell’arte, Progettazione, Matematica. Gli argomenti, proposti da me e sviluppati dai colleghi, venivano trattati dal punto di vista di ogni diversa materia. Era ritenuto particolarmente importante comunicare il senso della dimensione storico-umanistica nella quale si sviluppavano e a volte si giustificavano i concetti matematici da affrontare. Le lezioni, svolte talvolta in compresenza, terminavano sempre con una prova scritta.
2 – La mia progettazione didattica individuava i concetti cardine fondamentali per il programma da affrontare, e a quelli dedicava particolari attenzioni “laboratoriali”. Dovendo agire su una classe intera, con alunni non selezionati (soprattutto nella classe terza iniziale), veniva usato come strumento preferenziale la geometria dinamica, usata in un grande aula apposita, insieme a immagini varie, con video proiezione, che permettesse una interazione effettiva con gli studenti nelle situazioni chiave da esplorare e da matematizzare. L’aula grande era funzionale a spostamenti fisici e a osservazioni sul posto di fenomeni simulabili. Una volta “concretizzato” sufficientemente il concetto matematico, il lavoro su di esso proseguiva normalmente in classe, su esercizi opportunamente pensati.
3 – Era prevista una media di due interventi all’anno per classi riunite, nelle quali il docente universitario (Ghione) ed io tenevamo una lezione-conferenza su questioni particolarmente importanti e fondanti per la matematica. Ad esempio la prima conferenza per le terze è stata sugli “Elementi” di Euclide.
4 – Le materie “Progettazione” e “Geometria descrittiva” (materie cardine dell’indirizzo, il cui programma si occupava in maniera parallela di argomenti in comune con la matematica) uniformavano quando possibile il loro vocabolario a quello matematico, cioè in ognuna delle discipline ogni oggetto veniva chiamato con lo stesso nome, concordato, spesso quello “storico”, senza tuttavia cancellare gli alternativi termini moderni, che venivano ripresi quando era chiara la loro assimilazione da parte degli studenti. Le loro prove scritte, infine contenevano talvolta anche domande di tipo matematico, concertate con me, coerenti con l’argomento affrontato.

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